Con “FRAME” i quadri di Edward Hopper prendono vita a teatro

È uno dei più talentuosi esponenti della nuova generazione di registi della scena contemporanea, reduce dall’assegnazione al suo “Macbettu”, lo scorso dicembre, del più importante premio del teatro italiano, il Premio Ubu per il miglior spettacolo dell’anno. Un riconoscimento che arriva mentre non si è ancora spenta l’eco di “H+G” realizzato con La Ribalta – Accademia arte della diversità e che consacra un percorso artistico di altissimo profilo, sviluppato fin dal 1999 con la compagnia Teatropersona (Finalista al Premio Scenario per Ustica 2005, Premio europeo Beckett & Puppet 2006, Finalista al Premio Scenario Infanzia 2008, Premio Nuove Creatività, Premio di scrittura di scena Lia Lapini) e con collaborazioni internazionali come quella con il Grotowsky Center. Si tratta di Alessandro Serra, che sabato 3 febbraio (ore 21) presenterà sul palco del Teatro Astra “F R A M E”, spettacolo ispirato all’universo pittorico di Edward Hopper e allestito con la storica compagnia leccese Koreja (già all’Astra la scorsa stagione con “La parola padre” per la regia di Gabriele Vacis) in co-produzione con Teatropersona.

L’appuntamento è inserito nel cartellone “Terrestri 2017/18”, curato da La Piccionaia Centro di Produzione Teatrale per il Comune di Vicenza con il sostegno di Ministero dei Beni Culturali, Regione Veneto e Provincia di Vicenza.

Prima dello spettacolo (ore 19) al Polo Giovani B55 il filosofo Alfonso Cariolato presenterà un intervento dal titolo “Guardare chi guarda ciò che non si vede. La pittura di Edward Hopper”.

Serra si è ispirato alla capacità di Hopper di imprimere sulla tela l’esperienza interiore; ed è appunto questa che il regista sardo ha voluto ricreare in scena: “Ogni sua opera è stata trattata come un piccolo frammento, dal quale distillare figure e situazioni – spiega Serra -. Una novella visiva senza trama e senza finale, direbbe Cechov, una porta semiaperta per un istante su una casa sconosciuta e subito richiusa”.

Così, “F R A M E” è una coreografia di corpi senza voce, che grazie ai cinque interpreti-danzatori Francesco Cortese, Riccardo Lanzarone, Maria Rosaria Ponzetta, Emanuela Pisicchio e Giuseppe Semeraro fa scorrere sul palcoscenico frammenti di un racconto visivo di grande impatto. Un’immersione emotiva nel mondo dell’artista che nella prima metà del Novecento ha immortalato la solitudine dell’America contemporanea e al contempo l’irresistibile forza vitale racchiusa nel vuoto del quotidiano da cui le sue figure epifaniche – cose, uomini, volti, momenti – emergono improvvisamente, in un canto all’esistenza dei singoli esseri, alle loro storie malinconiche e all’universale fragilità degli individui.

Fotogrammi, “F R A M E” appunto, che Serra restituisce squarciando la fissità della tela attraverso una serie di partiture individuali, di coppia o di gruppo, in cui sono i corpi e la luce, curata dal regista stesso così come i costumi e le scene, a costruire la drammaturgia della messinscena. Storie appena accennate in cui i frequentatori del pittore riconosceranno rimandi a tele come “Stanza d’albergo”, “Sole di mattina”, “Mattino in South Carolina”, “Interno d’estate”, “Una donna nel sole” o “I nottambuli”.

Lo spettacolo è stato accolto con grande favore dalla critica: Andrea Porcheddu l’ha definito “uno struggente e poetico atto senza parole” e Maria Anna Foglia “una sapiente commistione di arte e teatro, in un’avvolgente galleria hopperiana in cui il fruitore è il centro assoluto con la sua intima e personale esperienza artistica, colui che insieme vive e crea l’opera”.

“Il titolo dello spettacolo indica anche le fenditure del reale, quelle piccole ferite di vita da cui Hopper ha tratto il suo immaginario artistico – continua Alessandro Serra -. Nei suoi quadri non vi è alcuna intenzione morale o psicologica. Egli semplicemente coglie il quotidiano dei giorni: opere straordinarie compiute attraverso l’ordinario. Quanto più consuete sono le ambientazioni, tanto più si rivela la magia del reale. Non c’è tempo per descrivere, tutto accade in un soffio in cui la verità interiore si rappresenta. C’è un dentro e c’è un fuori che osserva, ma non vi è alcun intento voyeuristico, nessuna perversione. Una castità e un pudore che si sprigionano quando si è riconciliati, calmi, scaldati dal sole. Quando la frattura interiore è già avvenuta in noi e tutto scorre senza rimpianti, lasciando che la vita che ci resta abbia il suo giusto decorso. Nessun evento sensazionale. Semplicemente un attimo in cui tutto cambia, senza clamore. Figure sempre ai margini di una soglia: una finestra, la vetrina di un bar, l’uscita di sicurezza di un teatro, un sipario socchiuso, una porta, il finestrino di un treno. In cerca di luce. Mentre fuori la vita, ferma, incombe. Deserte le strade, quieti gli oceani. E gli alberi, accesi dal sole, fanno schiera e creano sentieri bui”.

“Nei quadri di Hopper tutto è disposto verso una storia che non c’è – anticipa Alfonso Cariolato dal suo intervento pre-spettacolo -. Tentare di ricostruirla, come spesso si fa, è vano. È come se di un film che nessuno ha mai visto avessimo, ogni volta, un solo fotogramma. Vi sono dunque tutti gli elementi perché il quadro racconti qualcosa, eppure la storia, il significato, sfuggono inesorabilmente. Restano quelle luci, le ombre, gli spazi – e i buchi, le lacune, il vuoto”.