L’olio di palma fa davvero così male?

Ancora l’olio di palma? Sì, dopo mesi di petizioni sul web, inchieste, allarmi e smentite si torna a parlare della polemica alimentare dell’anno. Per una valida ragione.

L’occasione, come riporta La Stampa, è il report realizzato da Amnesty International su Wilmar International, multinazionale asiatica dell’agrobusiness da cui dipende il 43% della produzione mondiale di olio di palma e nelle cui coltivazioni lavorano 60mila addetti tra Indonesia e Malaysia.

All’origine di un prodotto che si trova nel 50% degli articoli da supermercato, dai gelati allo shampoo al dentifricio, ci sono abusi documentati lungo la filiera: donne pagate meno del minimo legale, senza assistenza sanitaria né previdenza. Bambini impiegati in lavori fisici pesanti. Lavoratori esposti ad agenti tossici e costretti a ritmi sfiancanti nella raccolta.

È da notare che otto dei nove marchi messi sotto osservazione da Amnesty per i loro rapporti con Wilmar (tra questi Kellogg’s, Nestlé, Unilever, Procter & Gamble, Colgate-Palmolive) sono associati alla Roundtable on Sustainable Palm Oil, il sistema di certificazione sulla sostenibilità ambientale dell’olio di palma. La deforestazione rappresenta l’altro dramma irrisolto della filiera: secondo Greenpeace, dal 1990 solo l’Indonesia ha perso un quarto delle foreste, trasformate in piantagioni, a fronte di una domanda globale cresciuta da 15 a 61 milioni di tonnellate.

Limitare l’allarme alla salute è fuorviante: l’olio di palma “fa male” quanto altri ingredienti di prodotti raffinati e su questo piano la soluzione è ridurre il consumo di certi alimenti industriali, piuttosto che concentrarsi sul singolo ingrediente. Ma la problematica, come si può vedere, non merita di ridursi a un tormentone ironico sui social.

Non c’è un cibo sano che non sia insieme buono, pulito e giusto. E spesso la mancanza di uno di questi requisiti fa venire meno tutti gli altri.