Quante volte abbiamo sentito ripetere che la produzione agricola deve raddoppiare entro il 2050 per far fronte alla crescita demografica? Ma ci sarà davvero bisogno di un aumento così importante? Sembra che alcuni studi fatti 10 anni fa non siano più attendibili.
Queste conclusioni, come scrive Gaetano Pascale di SlowFood, nascono da due diversi studi, condotti dall’università del Minnesota nel 2011 e dalla Fao nel 2012, divenuti un mantra per chi difende i metodi dell’agricoltura intensiva, l’impiego massiccio di pesticidi o le monocolture Ogm.
Ora una ricerca pubblicata sulla rivista Bioscience mette in dubbio questo tormentone. Entrambi gli studi, infatti, prendono come anno di partenza il 2005: se però aggiorniamo i dati al 2014 scopriamo che gli incrementi produttivi necessari variano in una forbice tra il 26% (rapporto della Fao, meno allarmista) e il 68% (guardando all’altra proiezione). Può sembrare molto, ma è parecchio al di sotto delle vecchie, funeste previsioni.
Gli autori del saggio sottolineano, soprattutto, che senza coniugare produttività e impatto ecologico nessun aumento nelle rese basterà a compensare i danni. Proprio questo è il punto eluso sistematicamente dai sostenitori del produttivismo. Come speriamo di assicurare cibo a sufficienza per i 9,7 miliardi di esseri umani che popoleranno la Terra nel 2050, se la prospettiva è una perdita irrecuperabile di terreni coltivabili e risorse idriche a causa della cementificazione, dell’inquinamento e del riscaldamento globale?
Le strade per sostenere l’agricoltura del futuro esistono, e sono più semplici e meno costose, ma anche più ostiche per le multinazionali. A cominciare dalla riduzione degli sprechi, o del consumo di terre per i biocarburanti e per l’allevamento intensivo. Bisogna allora, prima di ogni altra cosa, ripensare ai metodi di produzione e distribuzione.